È appesa lì, al muro, da 45 anni e chi la vede mi chiede sempre: «Cos’è?».
Desta curiosità più che interesse come un oggetto inusuale; l’oggetto misterioso di Telematch, quel famoso programma televisivo del 1957 che, condotto da Enzo Tortora e Silvio Noto, appassionò l’Italia intera. E lei lì, da quando vi fu appesa 45 anni fa, sostenuta da un semplice chiodo infisso al muro, sulla destra accanto alla mia scrivania, sempre nella stessa posa; mi guarda e se la ride.
È una forbice a punta smussata, una cesoia che a suo tempo, ai primordi dell’Ortopedia, si presentò sul mercato come lo strumento che aveva superato e surclassato tutti gli altri in uso fino a quel momento, studiata per aprire e rimuovere con facilità e senza fatica gli apparecchi gessati. Quanti ne ha tagliati, quanta gente ha conosciuto. Noi l’abbiamo sempre chiamata forbice da gesso, forbice di Stille o, più semplicemente e confidenzialmente, “la Stille”. «Dov’è la Stille?», «Passami la Stille», «Non trovo la Stille», erano le espressioni che si sentivano sempre, tutte le mattine lungo i corridoi all’apertura della sala gessi dei reparti di ortopedia; «Hai visto la Stille?».
Di Stille ce n’era una fissa nella nostra sala gessi e un’altra nell’ambulatorio divisionale, ed entrambe lavoravano a tempo pieno. Rappresentò veramente lo strumento più utilizzato nei reparti ortopedici, più di qualsiasi altro.
E adesso, lascio che sia lei a presentarsi, e a raccontarci la sua storia…
C’era una volta, in Svezia…
Sì, tutti i vecchi ortopedici mi conoscevano come Stille e tutti mi davano del tu, per il contatto giornaliero che si aveva, per i rapporti confidenziali e di amicizia che si erano creati, oltre a quelli istituzionali. Ne ho conosciuti tanti che potrei scrivere un libro; ne ricordo uno che mi sfotteva anche, era di Palermo e mi chiamava “A signorina”. Stille è il mio nome e Stille resterò per sempre nel ricordo di tutti. I giovani ortopedici, quelli no, quelli non mi conoscono o solo qualcuno di loro sa con esattezza chi sono e chi sono stata, qualche curioso che ha dedicato un po’ del suo tempo libero alla conoscenza della storia dell’ortopedia.
Sai quanta gente ho incontrato, avvocati, ingegneri, impiegati, povera gente e di tutte le razze. Le donne, appena le avvicinavo, provavano paura e mi temevano: «Piano, fai piano!» e «Attenta a non tagliarmi!», suggerivano al medico che mi armeggiava tra le mani. Tante soffrivano il solletico e sai che ridere. I bambini erano i più coraggiosi, anzi erano contenti perché, finalmente liberati dal gesso, presto avrebbero potuto riprendere tranquilamente i loro giochi. Una volta sono entrata anche in un carcere per rimuovere il gambaletto gessato a un detenuto, ritenendo il direttore del penitenziario più complicato e rischioso trasferirlo in ospedale, data la sua violenza e pericolosità. Gli ortopedici dello scorso secolo mi conoscevano tutti e ci fu anche qualcuno che necessitò della mia prestazione…
Mio papà era svedese e il suo nome era Albert Maximilian Stille ma tutti lo chiamavano Max. Ricevette in eredità la fabbrica di strumenti chirurgici dal padre, Stille Johan Albrecht, confidenzialmente Albert anche lui, fondata nel 1842, in concorrenza con le rinomate consorelle tedesche di Solingen. I tedeschi, in questo campo – sai come sono fatti – hanno tutti la puzza sotto il naso, «L’acciaio lo sappiamo fare e lavorare solo noi», affermavano in qualsiasi occasione, con orgoglio e presunzione. I cannoni sì, quelli è vero li sapevano fare bene, erano unici…anche se poi le guerre le hanno perse tutte!
La bravura e le capacità del nonno furono riconosciute dai dirigenti della Karolinska Institutet fin dal momento che vi fu assunto come apprendista e poi operaio, dove lavorò dal 1833 al 1836. La Karolinska Institutet è stata fin dalla sua fondazione una delle università mediche più importanti al mondo, promuovendo continuamente corsi di formazione nelle scienze mediche. Dalla Karolinska Institutet ebbe diversi riconoscimenti come costruttore di strumenti chirurgici. Poi si mise in proprio e aprì un piccolo laboratorio con cinque dipendenti; si costruivano affilatissimi bisturi e forbici di tutti i tipi, ed era frequentato, oltre che da chirurghi, da barbieri, arrotini, contadini e artigiani di vari settori. Strumenti tutti confezionati con l’ottimo acciaio svedese, sinonimo da sempre di qualità.
La bella favola di Mathijsen
Nel 1853, in una piovosa mattina di autunno, nonno Albert ricevette l’inaspettata visita di un chirurgo militare, dal nome Antonius Mathijsen. Di anni ne contava 47 ma ne dimostrava molti di più per l’evidente trascuratezza nel fisico e nell’abbigliamento civile; era noto nel suo ambiente per la modestia e riservatezza ma anche per la pignoleria e meticolosità che metteva nel lavoro. Uomo di vasta cultura, in quel periodo si dedicava allo studio delle fratture e delle ferite, osservando la loro evoluzione e mettendo in atto nuovi metodi per portarle a guarigione. Aveva notato, per esempio, che se l’arto ferito fosse stato immobilizzato, le ferite guarivano meglio e più velocemente. Aveva anche notato che se uno straccio veniva imbevuto di acqua e cosparso con polvere di gesso, quando il tutto si asciugava nel giro di pochi minuti, l’amalgama s’induriva nella forma che gli si dava. E da queste osservazioni partorì un’idea veramente geniale che rivoluzionò il trattamento delle fratture: l’apparecchio gessato.
«Caro messere Stille» cominciò subito col dire, «il mio nome è Mathijsen ma può chiamarmi Mathì, come fanno tutti i miei amici e colleghi»; e continuò così per diversi minuti parlando sul generico, informandolo su chi era, dove lavorava, cosa faceva di preciso e d’interessante; un discorso “a tirituppiti e tiritappiti”, come avviene sempre tra due che non si conoscono; l’attesa, il preambolo prima di affrontare il vero argomento da discutere.
Poi mio nonno, alzando la mano con il palmo nella direzione del suo viso, lo interruppe. «Scusi se l’interrompo, posso offrirle un bel boccale di birra?». Mathì non se lo fece dire due volte, perché già con quelle poche parole espresse, intrise da una spolverata d’inaspettata ma comprensibile emozione, la lingua cominciava ad asciugarsi; e poi la curiosità, avendo sentito parlare molto bene della birra che si produceva in quella nazione; ma anche delle donne svedesi, per la verità, aveva avuto ottime referenze. Con il primo assaggio, buttato giù tutto d’un sorso, ne tracannò mezzo boccale, tanto che fu d’obbligo – col dorso della mano sinistra, mancino com’era – asciugarsi le labbra seppellitesi sotto uno spesso strato di schiuma tipica della bevanda; poi riprese il suo dire.
«Sono un chirurgo e non so se la notizia sia giunta alle sue orecchie: io ho inventato la benda gessata, invenzione approvata all’unanimità dalla Commissione Investigativa Medica Olandese; per questa scoperta ho già ricevuto il titolo di Cavaliere dell’Ordine dell’Eikenkroon». Lo disse pavoneggiandosi, ma senza esagerare e con accurato controllo, perché sapeva che la benda gessata gli aveva permesso di entrare nella storia e nella girandola delle premiazioni internazionali, con medaglie in materiale vario e prezioso.
«Riduco le fratture e le immobilizzo con una garza bagnata, cospargendola con polvere di gesso che in pochi minuti fa presa e mette a riposo l’arto fratturato nella posizione che io impongo ai frammenti di frattura, lasciandoli nella posizione imposta per tutto il tempo necessario alla loro guarigione. Gli intoppi sorgono, caro messere – ed ecco il motivo per cui sono venuto a trovarla –, quando giunge il momento della rimozione di questo benedetto apparecchio gessato; con forbicette da signorine e seghetti inconcludenti, quelli esistenti in commercio, i tempi sono molto lunghi e spesso, per sbrigarmi, sono costretto ad immergere l’arto, o tutto il paziente se si tratta di un gesso pelvi-podalico, in acqua e attendere che il gesso si rammollisca. Lei che è il re degli strumenti particolari e perfetti, e che sa lavorare l’acciaio come nessun altro, può inventare e costruire una forbice adatta per forma, dimensione e potenza a tagliare in pochi minuti l’utile ma ingombrante manufatto?». Il vecchio, sebbene avesse in questo campo esperienza da vendere, restò spiazzato dalla domanda...
Una forbice, sì era necessaria una forbice, andava pensando, ma diversa da quelle che già in commercio erano impiegate per il taglio di tessuti, teli e materiali molto solidi e tenaci; sotto c’è la pelle e l’attenzione qualche volta potrebbe non essere sufficiente. Immerso in questi pensieri, l’andava immaginando con un solo braccio tagliente molto resistente e con la punta scorrente su un binario, in modo da non storcersi nell’affrontare la resistenza del gesso. Allo stesso tempo, la punta non doveva essere appuntita per non ferire la cute nella sua progressione. Pensava e parlava, biascicava le parole di cui il Mathì non riusciva a comprendere il significato, malgrado la massima attenzione posta ed il corretto orientamento dell’orecchio. Proprio così la vedeva la forbice, lo Stille, con la punta corta, dritta, bottonuta, liscia e arrotondata; l’acciaio doveva essere di qualità, quello di cui lui si forniva da Engelsberg. Oltre alle sue doti legate alla professione, Albert aveva un’altra qualità: era un chiaroveggente, azzeccandoci sempre nel prevedere fatti ed eventi che sarebbero avvenuti nel futuro, anche lontano. Diede la disponibilità, si salutarono con una calorosa stretta di mano alla quale seguirono abbracci e baci; per prudenza chiese una settimana di tempo per riflettere.
Albert si mise subito all’opera tralasciando tutti gli altri lavori in corso, avendo intuito anche lui la grandiosità dell’idea e il sicuro affare. Allo scadere della settimana, mandò una mail a Mathjisen (antoniusmathijsen@nl.com), frutto di profonda riflessione ed esperienza.
«Carissimo sig. Tenente Antonius Mathijsen, l’attrezzo di cui ha la necessità è pronto, ma purtroppo al momento resta solo nell’interno delle mie circonvoluzioni cerebrali. Trattandosi infatti di una invenzione storica, di fondamentale necessità e utilità, i tempi per realizzarlo non sono ancora maturi. Sa, la storia ha i suoi tempi e bisogna rispettarli. Colombo, per esempio, non andò in America nel 1490 perché la storia aveva già destinato la sua scoperta per l’anno 1492. Sarà mia premura accontentarla appena possibile, e se per caso non dovessi riuscirci per cause naturali lascerò nel testamento l’incarico di soddisfare la sua esigenza a mio figlio Max, appena nato, che vedo già come mio naturale successore, e anche più bravo di me.
Con i sensi della mia più profonda stima».
Una forbice nel testamento
Certo che il Mathì non la prese molto bene, ci restò un po’ male. «Ma come?», pensò tra sé e sé «Io vengo umilmente da te per chiederti di costruirmi uno strumento del quale sento un’immediata necessità, e dopo l’accoglienza riservatami, abbracci e baci nel commiatarci (certo che se ci fossimo rincontrati mi avresti chiesto di darci del tu), ci ripensi e te ne vieni con “non posso perché i tempi non sono maturi” e “te lo farò costruire da mio figlio appena nato”?». Contrariato per quanto successo e deluso per l’epilogo della richiesta, Mathì accantonò il progetto e continuò a rimuovere gli apparecchi gessati con la metodica tradizionale: acqua, seghetto e forbicetta.
«A’ Mathì, bongiorno, come stai?”». Lo chiamavano così ad Utrecht incontrandolo per strada, questo personaggio divenuto importante per le sue doti militari e di medico; Mathì, con l’inflessione del dialetto romanesco, perché Utrecht fu fondata nel 47 d.C., durante il dominio dell’imperatore Claudio; era una città romana e, anche se trascorsi diversi anni, nell’800 c’era chi il romanesco lo parlava ancora.
Io non ero nata e queste cose me le raccontava mio padre quando nelle lunghe serate d’inverno si restava a chiacchierare davanti allo schioppettante camino, pipa tra le labbra e bicchiere di Arrack punsch in mano. Avresti dovuto vedere come il vecchio aveva organizzato la fabbrica; ordine, pulizia e più di cento dipendenti, quasi tutte donne, giovani ragazze svedesi alte, slanciate, occhi azzurri, capelli biondo nordico, che, in parure con l’ambiente e gli oggetti che producevano, si presentavano come le avevano raccontate al Mathì, tette d’acciaio svedese, fianchi di marmo di Carrara e cosce affusolate da Küntscher 44.
Nel 1884 mio nonno si ammalò e nel 1893 morì; la fabbrica passò nelle mani di mio padre Max, che aveva appena compiuto 40 anni. All’apertura del testamento saltò fuori una lettera:
«Caro adorato figlio mio, quarant’anni fa venne da me il medico olandese Mathijsen, Antonius Mathijsen; tu non lo hai conosciuto ma son sicuro che ne avrai sentito parlare, essendo divenuto famoso nel mondo chirurgico per aver inventato l’apparecchio gessato; allora lui venne da me perché voleva che gli costruissi una forbice molto robusta per tagliare il gesso, a guarigione della frattura. Non potetti accontentarlo, perché Ananke, la dea del destino, della necessità inalterabile e del fato, aveva deciso che saresti stato tu a costruire la forbice da gesso, lo strumento indispensabile per il chirurgo ortopedico moderno, maneggevole, indispensabile e sicuro, del quale ognuno si sarebbe dovuto dotare. Mathijsen è morto nel 1878, “spinnatu”, col desiderio cioè di vedere realizzato lo strumento, completando in tal modo il suo sogno, rimuovere velocemente e in sicurezza gli apparecchi gessati. Troverai nella pagina successiva la descrizione delle caratteristiche e un disegno…».
Successo, capricci e declino
Mio padre, triste per la perdita del genitore ma felice per l’eredità ricevuta, fece quattro conti, fiutò l’affare e diede il via all’operazione; il successo fu enorme, mondiale, planetario. Forgiò lo strumento richiesto seguendo le indicazioni e il disegno lasciati dal padre; e con un certo stupore si accorse della suggestiva somiglianza con la pinza per la trapanazione del cranio da lui stesso creata nel 1895 per un docente di Uppsala, Karl Peter Dahlgren, da cui poi avrebbe acquisito il nome. Quando prese tra le mani il primo esemplare della forbice da gesso, lo tenne stretto stretto per qualche minuto, lo guardò bene, attentamente, da tutti i lati, girandolo piano piano; pensò alla lettera-testamento del padre, pensò al povero Mathì morto con un desiderio insoddisfatto; come si suole dire, senza essersi fumata l’ultima sigaretta. Pianse per entrambi i motivi, in preda alla forte emozione. Poi l’impacchettò ben bene con cura e la consegnò al corriere Amazon, pronto sull’uscio della fabbrica per partire e recapitarla al primo cliente.
Ci fu anche, in America, un certo Charles Horace Mayo che nello stesso periodo produsse e mise in commercio una forbice simile, per non dire uguale, giurando costui, di fronte alle tremende critiche mossegli, di averla generata lui con i suoi studi e con la sua esperienza; ci fu anche chi, trovandola sul mercato a un prezzo più conveniente, gli credette.
Qualche volta ne abbiamo combinato delle belle. Te ne voglio raccontare una in particolare…
Una suora di trent’anni, portati bene, una bella ragazza, un fisico perfetto, cadde dalle scale del convento e si ruppe il collo dell’omero. Una frattura composta per cui, giustamente, l’ortopedico decise per il trattamento incruento, e immobilizzò l’arto in un bendaggio alla Desault modificato, ricoperto cioè, a rinforzo, con quattro bende gessate per dare alla fasciatura una maggiore consistenza e resistenza. Allo scadere dei trenta giorni il Primario affidò il compito della rimozione del gesso al capo infermiere, un professionista capace e di esperienza. Mi prese costui tra le sue mani, e molto delicatamente introdusse la mia punta nella giusta posizione e direzione. Giunta che fui a metà strada, forse per un brusco movimento della suora o per un affondamento inopportuno impressomi dall’infermiere, andai a tagliare qualcosa di morbido.
«Ahi!» sbottò all’improvviso la paziente con un’espressione di dolore controllato dal suo stoicismo religioso, ma retraendo bruscamente il torace. Fui tirata subito fuori, la punta era imbrattata di sangue e in sala gessi ci fu un momento di panico generale; fu chiamato il Primario, che portò a termine la rimozione del gesso, delle garze, del cotone e della maglia tubolare, tutto il materiale che avvolgeva la gabbia toracica a protezione dal gesso puro. Con un taglio netto, avevo reciso il capezzolo della mammella. Tutti preoccupati tranne la suora che, superata la fase del dolore e tamponata l’emorragia, col volto rasserenato e il sorriso cristiano sulle labbra, se ne venne fuori con: «Una ferita come tante altre, a me il capezzolo non è mai servito e mai mi servirà; va bene così, la ferità guarirà».
È vero, fui la regina della sala gessi fino a quando, con l’avvento dei motori elettrici, ci fu qualcuno che nel 1947 s’inventò la sega oscillante; tanta gente non sa farsi i fatti propri. Da quel momento cominciò la mia decadenza, che si completò col pensionamento avvenuto a partire dagli anni ’50 quando i reparti di ortopedia ebbero un grande sviluppo e tutti si dotarono della sega oscillante. Un pensionamento non ancora definitivo perché i medici legali, quando eseguono un’autopsia, ancora oggi hanno bisogno di me per eseguire le costotomie. Sapessi come le faccio bene!
Nota (confidenziale) dell’autore
Nel 1980 fui contattato dall’Ufficio Tecnico dell’Ospedale di Mirano dove nel ’71 avevo vinto il concorso per aiuto. Nella soffitta del reparto ortopedico, nel corso degli anni, si era accumulato tanto materiale chirurgico fuori uso, un vero cimitero di guerra. Mi fu assegnato il compito, con il consenso del Primario dr. Acerboni, di redigerne l’elenco e tutto quello che non era più utilizzabile sarebbe andato al macero. La soffitta era stata predestinata ad altro scopo.
Era quasi tutto materiale proveniente dal prolifico reparto dell’Ortopedia di Mirano, voluto nel ’58 da Alfonso Coin, Presidente di quell’Ospedale che, quarto nel Veneto, si era dotato di questa specialità. C’erano placche di Sherman e placche di Lambotte per osteosintesi, c’erano due modelli GUEPAR di protesi di ginocchio, c’erano diverse endoprotesi d’anca, le Moore e le Thompson. E ancora: viti e placche per l’osteosintesi di fratture del collo del femore; pinze ossivore normali e curve, piccole e grandi; c’era qualche Kerrison con la punta rovinata o rotta, tenaglie, bacinelle, seghe per amputazione, scalpelli non più taglienti, grucce di vario tipo, curette, diversi tipi di divaricatori arrugginiti o modelli superati, e tanti strumenti provenienti da altri reparti, come per esempio un forcipe. Senza esagerazione, si sarebbe potuto creare un museo. Peccato che tutti questi strumenti, che avevano svolto egregiamente la loro funzione e che caratterizzarono un periodo dell’attività chirurgica di questo Ospedale, siano andati buttati via così, persi.
In un angolo della soffitta, forse il più nascosto e privo di luce perché lontano dal lucernaio, mi accorsi che sopra un tavolinetto sgangherato, c’era una Stille; i nostri sguardi s’incontrarono e notai subito che mi osservava, con sospetto e diffidenza; andai avanti con il mio lavoro fin quando fui costretto a fermarmi davanti a lei; era il suo turno. L’accarezzai lentamente con la punta dell’indice per sollevarla dalla polvere, atto che mise subito in evidenza la lucentezza dei suoi manici; i denti dimostravano la sua età, e uno era rotto; non la misi ovviamente alla prova ma il movimento era perfetto.
Questa volta mi guardò con un’espressione molto triste come a dire: «Hai visto dove sono finita? Hai visto come mi hanno ridotta dopo tanti anni di onesto lavoro? Chi lo avrebbe mai detto?». Poi venne fuori il suo orgoglio e si irrigidì nella posizione dei bracci che assunse e nello sguardo: «E tu, tu chi sei? Io non ti conosco, non ti ho mai visto. Da dove salti fuori, cosa vuoi?».
Aveva ragione, non ci conoscevamo perché quando presi servizio a Mirano nel 1971 gli apparecchi gessati si toglievano già con la sega oscillante; ricordo bene che era una Desoutter, un vecchio modello che veniva impugnato come fosse una pistola, troppo rumoroso e faceva vibrare in maniera fastidiosa il polso e la mano che la sorreggevano; su mio consiglio, fu cambiata subito con una elegante, silenziosa e maneggevole Stryker.
Sul blocco degli appunti annotai: N° 1 Forbice di Stille. Alzai lo sguardo, si era chetata, assumendo però un aspetto sempre più triste e malinconico. «Non mi sono mai stancata» mormorava a bassa voce, «ho svolto sempre il mio compito con grazia, gentilezza, delicatezza, giorno e notte, mai un giorno di riposo o di ferie e quel bastardo di Homer Stryker, nel 1947, va a brevettare…», e non fu capace di andare oltre perché colta da un improvviso e dirotto pianto.
Era d’inverno e in soffitta non c’era il riscaldamento. Faceva freddo quella mattina. Ultimato il mio compito mi avviai verso l’uscita e passando davanti alla Stille, mi fermai, uno sguardo, un attimo di esitazione; poi mi guardai ben bene tutt’intorno, mi chinai, la presi e la nascosi sotto il mio Loden. «Dai, le dissi, vieni con me, ti porto a casa».
Un furto? Certamente lo è stato, ma è stato anche un salvataggio nel mare dell’ignoranza, e la mia Stille, la mia cara Stille, lo sa e mi è, e sono certo mi sarà sempre, eternamente riconoscente.
Storia
Ricevuto e accettato: 5 febbraio 2025
Figure e tabelle
Forbice di Stille. (Fonte: da “Catalogo dell’Officina Ortopedica dell’Istituto Rizzoli in Bologna - Stabilimenti Poligrafici Riuniti, 1932)
Johan Albrecht (Albert) Stille (1814-1893), fondatore dell’omonima ditta svedese di strumenti chirurgici. (Fonte: dal sito internet “sok.riksarkivet.se”)
Antonius Mathijsen (1805-1878), il medico militare olandese inventore della benda gessata. (Fonte: dal sito www.ntvg.nl)
Albert Maximilian (Max) Stille (1853-1906). Al centro, la pinza Dahlgren per la trapanazione del cranio, somigliante alla forbice “Stille” (visibile a destra, in evidenza il particolare del morso). (Fonte: dai siti internet “sok.riksarkivet.se” e “medika.kiev.ua”).
«È appesa lì, al muro, da 45 anni…»: ecco “la Stille”, personaggio e interprete di questo angolo di storia.
