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Attorno a sé aveva creato il culto della personalità. Alto di statura, un volto attraente, l’eleganza nel vestire, il portamento signorile. E dietro queste apparenze c’era l’uomo di elevata intelligenza e di cultura vastissima, il carisma e la fermezza di chi sapeva comandare. Vittorio Putti – per quasi trent’anni alla guida dell’Istituto Rizzoli di Bologna e ambasciatore dell’ortopedia italiana nel mondo – era tutto questo; e lui era consapevole di esserlo, lo voleva. Non per niente i suoi collaboratori lo chiamavano “il prence” (il principe), un appellativo che alle sue orecchie poteva solo suscitare compiacimento.
Circondato da questo alone di vanità, tutt’altro che fatua, non disdegnava di farsi fotografare in posa, fissando l’obiettivo con i suoi occhi scuri e lo sguardo penetrante, esibendo in ogni particolare quel contegno e quella raffinatezza che gli appartenevano per natura. E siccome, tra le tante sue virtù, possedeva anche un innato senso artistico e l’amore per il bello, pensò che un ritratto a colpi di pennello potesse dare maggiore risalto alla propria immagine e magari valorizzare la sua collezione di quadri.
L’idea dovette agitarsi per un po’ nella sua testa. Non un ritrattista qualsiasi; ne voleva uno all’altezza, se non il migliore sulla piazza.
E a furia di cercarlo e di inseguirlo, oltrepassò i confini di Bologna e dell’Italia, e andò fino a Londra per trovarlo. Si chiamava Philip de László, origini ungheresi; si era fatto conoscere e apprezzare in varie nazioni d’Europa, prima di stabilirsi in Inghilterra. Nella sua galleria figuravano personaggi illustri, come la famiglia reale della Bulgaria, l’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria, papa Leone XIII (con relativa trasferta a Roma), il principe di Piemonte Umberto II, la futura regina d’Inghilterra Elisabetta II quando ancora era una ragazzina di sette anni.
Recarsi a Londra non era un problema per Putti. Anzi, era l’occasione per rimettere piede in una città che lo attirava forse più di ogni altra, lui avvezzo a viaggiare per continenti. Vi era capitato già nella primavera del 1918, quando la Prima guerra mondiale teneva ancora accesi gli ultimi suoi focolai, facendo pagare un altissimo tributo di feriti e mutilati. Al Consiglio interalleato per gli invalidi, presso la Royal Society of Medicine, aveva tenuto una conferenza dal titolo “An address on kineplastic amputations”; e in quella circostanza si era fatto accompagnare da Augusto Fusaroli (direttore tecnico dell’Officina ortopedica del Rizzoli), col quale espose innovativi modelli di protesi in legno per arti amputati. Da allora, almeno altre quattro puntate nella capitale britannica, prendendo parte attiva a importanti eventi scientifici; l’ultimo di questi nel 1933, il 2° congresso della SICO, la Société Internazionale de Chirurgie Orthopédique, della quale lui stesso era stato uno dei più convinti promotori.
A parte comunque le esigenze di natura professionale, a spingerlo oltremanica erano anche interessi personali nel campo della cultura, della musica, del collezionismo, della moda. Basti pensare che per rifornire il suo ricco guardaroba chic – e avere la possibilità di cambiarsi d’abito anche più volte al giorno – si serviva volentieri nella bottega di un sarto londinese.
Le nitide pennellate di Philip de László
Era la fine di aprile del 1935 quando Vittorio Putti si presentò a Philip de László per la realizzazione del ritratto. Bolognese di nascita, di studi e di carriera, il direttore del Rizzoli si trovava praticamente all’acme della sua fama mondiale. Cinquantacinque anni appena compiuti, il capo canuto aveva accentuato il fascino – e forse anche l’austerità – del suo volto. Ne rimase colpito lo stesso artista (undici anni in più, e in avanzata calvizie), che su un suo diario non esitò a presentarlo come «bello, occhi scuri, con capelli bianchi… simile a un antico senatore romano». Non ne aveva scrutato solo i pregi esteriori. Lo aveva invitato a pranzo, in una tavola dove sedevano anche alcune signore della buona borghesia, e aveva avuto modo di apprezzare le qualità del suo carattere: «è stimolante, loquace, entusiasta, colto, ama l’arte; che differenza dal freddo calcolatore inglese…». Per dare espressività ai ritratti che componeva, aveva evidentemente bisogno di entrare anche nell’intimo della persona.
Di umili origini ebraiche, primo di nove figli, fin dall’età infantile Philip si era adoperato – per talento innato e per necessità di famiglia – a dipingere porcellane e maioliche, e poi a farsi assumere come apprendista nello studio di un fotografo ritrattista. Era nato a Pest, nel 1869, qualche anno prima che si unisse a Buda (sulla opposta riva del Danubio) a formare la futura grande capitale dell’Ungheria. All’anagrafe era stato registrato come Fülöp Laub, generalità poi modificate in Philip László, pare per un atto patriottico, con la successiva aggiunta del nobiliare “de Lombos” concesso dall’imperatore Francesco Giuseppe, che ne riconobbe la fama artistica.
Formatosi alle Accademie di Budapest, di Monaco di Baviera e di Parigi, Philip Alexius de László (versione definitiva di nome e cognome) aveva a lungo girovagato in Europa, prima che dal 1907 mettesse radici a Londra. Nel 1921 si era stabilito nel nuovo sobborgo di Hampstead, al 3 di Fitzjohns Avenue, elegante viale alberato sul quale si affacciavano dimore di lusso. Una di queste, la Hyme House, venne acquistata dall’artista per fissarvi la residenza sia per l’attività lavorativa che per la famiglia, moglie e cinque figli. Facciata in mattoni, grandi finestre sporgenti, frontoni e tetti triangolari: una villa che, per gli ampi spazi e il tipico stile architettonico britannico del periodo (il cosiddetto Arts and Craft, anticipatore dell’Art Nouveau), soddisfaceva a pieno i requisiti di agio e signorilità.
Il terreno circostante, peraltro, risultò sufficiente per la costruzione di uno studio d’artista, che venne raffinatamente arredato al pari degli interni abitativi, con soffitto alto, pavimento in rovere, colonne e cornicioni decorati, mobili d’antiquariato, arazzi fiamminghi; e con gli immancabili quadri a fare da tappezzeria. Lo stesso studio, collegato con l’abitato da un passaggio coperto, si apriva su un patio in pietra e su un giardino delimitato da siepi e alberi; zone che potevano ugualmente rappresentare un idoneo ambiente di lavoro, oltre che un piacevole luogo di intrattenimento con amici e clienti. Sappiamo già che De László gradiva conoscere a fondo anche l’interiorità di un soggetto da ritrarre, al di là del suo aspetto; per cui volentieri apriva le porte della sua accogliente casa per riunioni conviviali, occasioni di incontro anche per persone di diversa provenienza geografica.
Vittorio Putti non sfuggì a questo rituale. Nei giorni tra la fine di aprile e i primi di maggio di quell’anno, il 1935, si recò più volte in Fitzjohns Avenue, quando il giardino di Hyme House – come testimoniato da un diario dello stesso artista – «…è già vestito del suo verde estivo - è così bello…». La perfetta conoscenza della lingua inglese (oltre che del francese, del tedesco e dello spagnolo) permise sicuramente al già famoso italian prof di trovarsi a suo agio nelle conversazioni che, tra una pietanza e l’altra o semplicemente sorseggiando un thè, si poterono avviare anche con distinti interlocutori. Preambolo necessario per l’approccio strettamente professionale dell’artista, che nei giorni successivi si articolò attraverso la ricerca della posa più confacente, lo schizzo di prova, la scelta dei colori, le verifiche sulla tela. La mattina del 4 maggio, il ritratto era già bell’e finito!
Secondo i critici, lo stile di De László era caratterizzato «dalla sua meticolosa attenzione ai dettagli, dalla precisione tecnica e dalla capacità di evocare la personalità e la nobiltà dei suoi soggetti». Ritraeva per lo più a figura intera o quasi, secondo un modello di realismo e di perfezione formale, che lasciava comunque spazio alla cattura di espressioni e di emotività. Uno stile che in qualche modo seguiva il solco tracciato nei secoli precedenti da artisti di gran nome, come il fiammingo Antoon van Dyck, o gli inglesi Joshua Reynolds e Thomas Gainsborough.
Dipingeva “olio su tela”, De László. E adottava spesso la tecnica cosiddetta “alla prima”, vale a dire applicando i colori a olio su uno strato ancora umido (“bagnato su bagnato”); tecnica che permetteva il completamento dell’opera in tempi brevi, a volte anche in una sola giornata, ma richiedeva molta sapienza, perché bisognava avere subito a disposizione i colori finali, prevedendo già la posizione di luci e ombre. A tal proposito, inseriva i colori sulla tela nel preciso ordine in cui li aveva predisposti sulla tavolozza, evitando di mescolarli tra loro; «per amore della purezza», diceva.
Diversi filmati presenti sul web (proponiamo un link fra i tanti: youtube.com/watch?v=Mx9abKh-XPc) ce lo mostrano proprio nell’atto di creare un ritratto. Il soggetto diligentemente in posa al suo fianco, lui in piedi davanti al cavalletto, in abito elegante e sguardo espansivo. La tavolozza dei colori agganciata nella mano sinistra, mentre con la destra il pennello si spalma sulla tela imprimendo movimenti fluidi e decisi, come la bacchetta di un direttore d’orchestra. E dopo ogni serie di pennellate, un passo in allontanamento per apprezzare meglio l’effetto generale delle proporzioni e registrare mentalmente il tocco successivo. Si vede l’immagine prendere forma con sorprendente rapidità, senza esitazioni, come se tutto sia stato dettagliatamente programmato, un gesto dopo l’altro.
Secondo la tradizione accademica, era solito avvalersi di disegni preparatori, adoperando il carboncino o matite di gesso; talora gli stessi colori a olio. Piuttosto, era un’altra la particolarità che rendeva originale il suo metodo: quella di dipingere il ritratto direttamente all’interno della cornice definitiva, in modo che le due componenti potessero essere del tutto in armonia. «Preferisco sempre dipingere nella cornice» soleva ripetere ai suoi clienti «e se possibile sceglierne una autentica e antica… Credo che la cornice sia parte integrante del quadro e debba essere presente fin dall’inizio. Se viene aggiunta all’ultimo momento, c’è sempre il rischio che non si adatti al carattere dell’opera». Ci teneva così tanto a questo dettaglio che, volentieri, si incaricava lui stesso dell’acquisto di una cornice; e a Londra sapeva a quali framemakers rivolgersi per ottenere ciò che potesse fare al caso suo.
Dalla ricca iconografia conservata nel cosiddetto “Trust Archive” di Philip de László si può tirar fuori un disegno preparatorio del ritratto di Putti, realizzato in “gesso su carta”: il colore nero per delineare i contorni e le pieghe della figura, il lumeggiato bianco per evidenziare la capigliatura e le luci. Una fedele anteprima del prodotto finito.
L’artista aveva accolto Putti nella propria casa il 30 aprile; e probabilmente – oltre a studiarne la personalità, con uno strategico invito a pranzo – aveva cominciato ad abbozzarne i profili della figura fisica. Ulteriori sedute di prova ebbero luogo nei primi tre giorni di maggio. Nella mattinata del 4, come anticipato, il ritratto era giunto a compimento (ne riproponiamo, ingrandita, l’immagine, per coglierne meglio ogni sfumatura, sia del dipinto che della cornice).
Olio su tela, 88 cm di altezza x 66,5 di larghezza. Cornice in legno intagliato e dorato, con bulinatura e decoro a doppio motivo vegetale. Il “modello Putti” seduto su una sedia, in posa di tre quarti. Sguardo profondo, il colore marrone dei suoi grandi occhi risalta nel roseo del volto glabro e dell’ampia fronte; la bianca chioma, ordinatamente divisa dalla scriminatura, crea ancor maggior contrasto col nero delle sopracciglia e dello sfondo. La mano sinistra si appoggia semiaperta sulla guancia, in atteggiamento di meditazione. Alla profondità espressiva della composizione sembrano partecipare anche gli effetti impressi all’abito e agli accessori.
Per appagare il proprio narcisismo, il direttore del Rizzoli non poteva augurarsi una raffigurazione più accurata e intensa, specchio fedele della sua immagine, rispettosa della sua dignità professionale.
Ci sono altre due foto, prelevate da quell’archivio, che raccontano ulteriori particolari interessanti. In una viene immortalato il ritratto di Putti quando ancora si trova fissato al cavalletto da lavoro, come a voler documentare il luogo in cui è stato realizzato. È un angolo suggestivo dello studio di De László; oltre alla bella compagnia di altri quadri, traspare da ogni componente di arredo – comprese le colonne con capitello corinzio – il suo gusto per l’arte classica. Piuttosto, risulterebbe un po’ incoerente la data riportata nella didascalia in sovraimpressione (“prof. Putti, aprile 1935”), che intende sicuramente riferirsi all’inizio del lavoro.
Nell’altra, è l’artista stesso ad accostarsi alla sua opera compiuta. Mostra l’aria soddisfatta di chi ritiene di avere assolto al compito richiestogli; sul suo diario avrebbe lasciato scritto che considerava quel ritratto «… tra i miei volti migliori e pensosi e sensibili». Come dire che, con i suoi nitidi colori, era riuscito a dare anche un’anima a quell’aspetto da “antico senatore romano”.
Da entrambe le immagini si ha comunque una conferma: la cornice definitiva era già presente a Londra, e con ogni probabilità fu De László a commissionarla, dipingendovi successivamente il ritratto. C’è da scommettere che anche i capi di vestiario indossati da Putti in quella occasione – giacca doppio petto, cravatta regimental e pochette – fossero tutti made in England!
Un posto riservato nel museo del Rizzoli
Quando fece il suo ingresso all’Istituto Rizzoli, il dipinto andò ad aggiungersi alla già ricca collezione di ritratti di medici illustri alla quale Putti si era dedicato per anni, con grande passione e con altrettanto dispendio di risorse economiche. Amava l’arte, in tutte le sue forme. E nel suo, di ritratto, ne vedeva una delle tante manifestazioni, al di là di ogni esibizionismo. Se non la propria persona, doveva essere la raffigurazione in sé – per stile e ricercatezza – a meritarsi un posto in quella nobile galleria.
Tenendo conto soltanto dei dipinti ad olio su tela, come quello realizzato per lui a Londra, vale ricordarne alcuni di altissimo valore, sia per la qualità pittorica che per l’importanza dei personaggi. A partire dal ritratto che il bolognese Carlo Cignani (considerato il più grande pittore bolognese del Seicento), dedicò al conterraneo e contemporaneo Marcello Malpighi, celebre anatomista e istologo, il cui nome è rimasto immortalato negli eponimi di due formazioni renali, “corpuscolo di Malpighi” e “piramide del Malpighi”. Un quadro che Putti avrebbe poi donato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove tuttora è conservato.
Non meno rilevanti altre tre tele, lasciate in eredità al Rizzoli, con cui sono stati rappresentati: Gaspare Tagliacozzi (medico bolognese del Cinquecento, antesignano della chirurgia plastica), Antonio Maria Valsalva (allievo imolese del Malpighi, di cui è rimasta nota la descrizione di una “manovra” per la compensazione dell’orecchio medio), Leopold Auenbrugger (medico austriaco del Settecento, inventore della percussione toracica per la semeiotica delle malattie polmonari); quest’ultimo, raffigurato insieme alla moglie.
Di medici, scienziati e, più in generale, di uomini illustri, Putti collezionava anche ritratti ottenuti con disegni (a matita, a pastello, ad acquerello), litografie, incisioni (in legno, in rame, in acciaio), fotografie; e ancora, medaglie commemorative e autografi. Trattasi di una raccolta di più di mille esemplari, quelli almeno che si è riusciti a raccogliere e a catalogare ad anni di distanza dalla sua morte. Per non parlare della sua mania di andare alla ricerca – scovandoli nei posti più imprevedibili, e a volte segreti – di manoscritti, di codici miniati, di incunaboli (i primi documenti stampati con la tecnica dei caratteri mobili); nonché testi rari di medicina e antichi strumenti chirurgici.
Era disposto a tutto pur di entrare in possesso di uno di questi oggetti, e godere poi della loro silenziosa compagnia nei momenti di relax, lontano dagli impegni di lavoro. Racconta Francesco Delitala, suo aiuto, che ogni occasione era buona per aggirarsi tra librerie, antiquari e bancarelle, in ogni città da lui visitata. Così a Venezia, come a Parigi, a Berlino o a Londra. Già, ancora Londra! Una volta vi si recò solo perché era venuto a conoscenza di un’asta nella quale veniva messo in vendita un breviario miniato del XV secolo già appartenente a San Petronio (patrono di Bologna, al quale è intitolata la Basilica gotica di piazza Maggiore), che dal 1700 era misteriosamente sparito dalla sua sede originaria. Putti non esitò a raggiungere Londra, prendere parte all’asta e riuscire a battere la concorrenza di non pochi bibliofili. L’amore per la sua città natale era superiore a ogni suo bramosia personale, tanto che, una volta rientrato, riportò quel piccolo tesoro a San Petronio.
In realtà, tutto era destinato in beneficenza. Putti era scapolo, viveva all’interno del complesso monastico di San Michele in Bosco, sede dell’istituto bolognese, nella villetta riservata al direttore; con lui solo un domestico, a parte il periodo in cui ospitò per motivi di salute una sua nipote (Vittoria, figlia della sorella Emilia). Il Rizzoli praticamente era la sua casa, e allo stesso tempo la sua famiglia. Naturale, quindi, l’aver deciso di scrivere sul testamento che tutte le sue collezioni e ogni libro appartenente alla sua biblioteca diventassero proprietà dell’Istituto Rizzoli, «affinché ne possano usufruire tutti gli studiosi». Aveva anche chiesto, con legittimo orgoglio e al di là di pura ostentazione, che sulla porta d’accesso alla sua biblioteca fosse apposta l’insegna “Donazione Putti”.
Era sempre un inguaribile amore per l’arte e il gusto del bello a guidarlo in ogni decisione che riguardasse l’aspetto formale della sua esistenza. Attitudine tramandata dal ramo materno della famiglia, essendo mamma Assunta sorella di Enrico Panzacchi, poeta e critico d’arte; mentre il padre Marcello, ex chirurgo primario dell’Ospedale Maggiore, aveva provveduto a infondergli quei geni che l’avrebbero indirizzato nel campo della medicina.
Ritrovarsi a svolgere la sua professione nel complesso monumentale di San Michele in Bosco, vero e proprio museo a cielo aperto dal punto di vista architettonico e pittorico, era stata per Putti una sorta di provvidenza divina. Per cui, dal momento che gli venne affidata la direzione unica dell’istituto (nel 1914, a due anni dalla morte del suo maestro Alessandro Codivilla) aveva sentito il bisogno, più che il dovere, di adeguare ogni ambiente a quella tradizione di magnificenza e di decoro.
Tra le tante iniziative in tal senso, aveva provveduto a fare restaurare i preziosi affreschi dei Carracci e del Vasari, oltre a riportare agli antichi splendori l’antica Libreria dei Monaci (trasformata nella Biblioteca Umberto I), assegnando il compito di arredarla al già citato Augusto Fusaroli, vero artista del legno. Analogo incarico gli affidò più tardi anche per l’allestimento del proprio studio-biblioteca; ne venne fuori un’altra opera d’arte, con pregiata radica di noce a tappezzare pareti, porte, finte colonne e scaffalature, secondo un disegno che lo stesso Putti aveva progettato, per soddisfare la personale ricerca di eleganza, funzionalità e ordine.
Tutta la collezione era destinata a confluire, come detto, nel lascito testamentario; ma proprio il ritratto realizzato da Philip de László si ritrovò inizialmente dirottato su un altro percorso. Si narra, infatti, che Oscar Scaglietti, uno dei più valorosi allievi di Putti, ebbe l’ardire (ma potremmo dire anche l’avvedutezza) di requisire il quadro, dopo la morte del maestro, colpito da infarto il 1° novembre del 1940. La Seconda guerra mondiale era appena scoppiata, ma il vero dramma per la nostra Penisola si consumò a partire dall’8 settembre del ’43, quando si trasformò interamente in un terreno di battaglia. Gli ex alleati tedeschi, in ritirata, occupavano e spesso requisivano o devastavano tutto quello che trovavano lungo il loro cammino, e così fecero anche nei confronti dell’Istituto Rizzoli; poi vi misero piede anche i nuovi alleati anglo-americani. Lo sgombero della ricca collezione di Putti in un luogo segreto ne scongiurò il saccheggio, ma intanto quel suo ritratto gelosamente custodito da Scaglietti – che ne aveva colto il valore spirituale, prima ancora che materiale – si trovava già in mani sicure.
Che il quadro venuto da Londra dovesse prima o poi riprendere fissa dimora al Rizzoli non potevano esserci dubbi. Questo atteso ritorno all’ovile avvenne il 1° novembre del 1968. Data storica e felice concomitanza. Quel giorno, infatti, si celebrava sia un anniversario della morte di Putti (il ventottesimo), sia l’insediamento di un nuovo direttore della Clinica ortopedica nell’istituto bolognese. Era Mario Paltrinieri, altro suo affezionato allievo, devoto a tal punto da avergli intitolato la Clinica ortopedica di Pisa da lui fondata nel 1951, e da dove in quell’anno proveniva. Prendeva il posto in cattedra sul quale, dopo il loro maestro, si erano avvicendati Francesco Delitala e Raffaele Zanoli. Ebbene, la cerimonia commemorativa fu onorata dalla presenza del ritratto di Putti, che nella circostanza venne donato dalla famiglia, alla quale evidentemente era stato in un primo momento consegnato.
Una foto pubblicata a corredo del sopracitato articolo mostra proprio il quadro a fianco del tavolo degli oratori, nell’aula del Rizzoli dove si teneva il convegno; con le sue notevoli dimensioni, oltre alla statura intellettuale del personaggio raffigurato, sembra proprio dominare la scena. Dopo i saluti di rito portati dal presidente del Consiglio d’amministrazione dell’istituto, l’avv. Arnaldo Bartolini, dai presidi di facoltà di Bologna e Pisa, rispettivamente Carlo Rizzoli ed Enrico Puccinelli, dagli stessi Delitala e Scaglietti, il prof. Paltrinieri prese la parola per il discorso inaugurale, rivolgendo a Putti una dedica speciale: «La sua figura ci apparirà oggi dal quadro del grande ritrattista De László in tutta la sua forza espressiva di uomo dotato di un fascino fisico ed intellettuale eccezionale…».
L’opera entrò così definitivamente nella collezione della “Fondazione Putti”. E trovò la sua collocazione nello studio che il maestro stesso aveva progettato e poi fatto realizzare dalle abili mani dell’ebanista Fusaroli. Era quello il luogo in cui amava ritirarsi tutte le volte in cui, assolti gli impegni assistenziali, poteva dedicare tempo alla ricerca e all’aggiornamento. Si isolava nel silenzio tra quelle calde pareti in legno; si immergeva nella lettura, nella preparazione di un atto operatorio, di una relazione scientifica o di una lezione agli studenti, consultando testi e riviste specialistiche di cui aveva dotato in gran numero la sua biblioteca.
Con mente più rilassata e maggiore leggerezza, era anche il luogo in cui si concedeva alle proprie collezioni, che come abbiamo visto spaziavano in svariati campi della scienza e dell’arte. Sfogliava avidamente libri e atlanti antichi di medicina, che certo non acquistava solo per il gusto di vederli esposti, senza conoscerne il contenuto. Riprendeva tra le mani dipinti, incisioni, medaglie, persino rilegature in oro o in pietre preziose; erano un godimento per i suoi occhi e un balsamo per il suo stato d’animo. E se proprio voleva estraniarsi da tutto, gli bastava contemplare – attraverso le grandi finestre di quella stanza – il bel panorama che gli offriva il bosco dei colli circostanti, appagando così anche la sua grande passione per la natura.
Geloso delle proprie cose – oltre che del proprio personaggio – aveva reso quasi inaccessibile agli altri questa sorta di rifugio incantato. I suoi allievi, che pure lo avrebbero sempre seguito e venerato, sottostavano alla sua severità, ai suoi modi talora duri e superbi, al suo voler accentrare tutto su di sé. Nelle rare volte in cui veniva loro concesso di accedere in quella stanza, era alta la probabilità di entrarvi solo per subire una bella ramanzina e uscirne ben presto a capo chino.
Un episodio capitato a molti anni di distanza dalla morte di Putti, e raccontatoci da un testimone, potrebbe confermare quanto appena detto. Il suo ex allievo Oscar Scaglietti, quando era già direttore della Clinica ortopedica di Firenze – e che in fatto di prestigio e autorità non stava dietro a nessuno –, trovandosi un giorno insieme a un gruppo di colleghi per una visita di interesse storico allo studio del maestro, confessava ai presenti che a lui ancora tremavano le gambe ogni volta che si accingeva a varcare quella porta!
Non poteva esserci sede più suggestiva per l’esposizione del quadro; là, in bella mostra, a fianco della scrivania. Più di ogni foto in primo piano, più del mezzo busto in marmo che campeggia lungo il corridoio monumentale dello stesso Istituto Rizzoli, è proprio il ritratto di De László ad aver consegnato alla storia il volto – e lo spirito – del maestro Vittorio Putti. Pienamente a suo agio tra l’eleganza, la funzionalità e l’ordine di cui amava circondarsi.
Storia
Ricevuto e accettato: 13 aprile 2025
Figure e tabelle
Vittorio Putti (1880-1940) nel ritratto del pittore ungherese Philip de László, realizzato a Londra nel 1935 (olio su tela, 88x66,5 cm). (Fonte: de Laszlo Archive © de Laszlo Foundation, per gentile concessione)
Philip de László (1869-1937) all’età di 59 anni. (Fonte: foto Walter Benington, National_Portrait_Gallery). A destra, la Hyme House (sua residenza londinese) in una istantanea recente. La freccia indica una “targa blu”, cartello con cui nel regno Unito si è soliti commemorare il legame tra quel luogo e un personaggio famoso. (Fonte: da en.wikipedia.org, licenza CC 4.0)
Da sinistra, disegno preparatorio (gesso su carta) del ritratto di Putti. Seguono due testimonianze fotografiche all’interno dello studio di De László: il quadro ancora sul cavalletto, tra pregiati elementi di arredo, e l’artista che si fa immortalare davanti alla sua opera compiuta. (Fonte: de Laszlo Archive © de Laszlo Foundation, per gentile concessione)
Ritratti di medici illustri della ricca collezione di Putti. Da sinistra: Marcello Malpighi, Gaspare Tagliacozzi, Antonio Maria Valsalva, Leopold Auenbrugger (e consorte). (Fonte: L. Gui, M. Pantaleoni - La raccolta Vittorio Putti… - Aulo Gaggi Editore, 1966)
Istituto Rizzoli, 1° novembre 1968. Il quadro raffigurante Vittorio Putti (ben visibile a sinistra) rientra in “casa”, e onora la cerimonia per l’insediamento del prof. Mario Paltrinieri (seduto al tavolo degli oratori, il secondo da destra) come nuovo direttore della Clinica ortopedica bolognese. Il secondo da sinistra è Francesco Delitala, che sembra assumere la stessa posa del maestro. (Fonte: La Chirurgia degli Organi di Movimento - Vol. LVII - L. Cappelli Editore)
“Eleganza, funzionalità, ordine” nello studio-biblioteca di Vittorio Putti, da lui voluto e lasciato in donazione «affinché ne possano usufruire tutti gli studiosi». A sinistra, il maestro immerso nella lettura dei suoi libri. Il suo volto e la sua anima hanno continuato a vivere nel quadro di De László, visibile a fianco della scrivania nella foto a destra. (Fonte: L’Istituto Rizzoli in San Michele in Bosco - IOR 1996)
