Abstract
Albume d’uovo, alcol canforato, amido cotto, destrina… Francesco Rizzoli non voleva più sentir parlare di questi ingredienti. Li aveva provati anche lui, singolarmente o variamente miscelati tra loro, imbevendo stoppe e fasce per confezionare apparecchi di immobilizzazione. L’auspicato rassodamento del composto si faceva attendere a lungo, e il più delle volte non arrivava mai; sicché le articolazioni restavano in balia dei movimenti, e i monconi di una frattura – al di sotto di quella debole corazza – continuavano a dimenarsi e a scricchiolare. A lui, come medico, la cosa non faceva certo piacere; al malcapitato paziente, ancora meno! La storia ci porta a Bologna, verso la metà dell’Ottocento. Il dott. Francesco Rizzoli, trentacinque anni, si fregiava già del titolo di “professore ordinario”, titolare della cattedra di chirurgia teoretica e ostetricia; prestava la sua opera nell’Ospedale degli Abbandonati e Ricovero, dove era entrato da assistente, scalando rapidamente i gradini fino al ruolo di primario. Impegnato ad affrontare problemi in ogni campo della patologia – come un buon medico-chirurgo del suo tempo – il trattamento delle fratture non poteva sfuggire ai suoi doveri. Ma siccome di tutto non poteva interessarsi in prima persona, stavolta preferì demandare.
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